Dall'intervista del prof.Giuseppe Speziale a Il Messaggero - marzo 2022
La pandemia ha paralizzato l’attività assistenziale negli ospedali in Italia: sono saltati un milione e mezzo di interventi chirurgici già programmati. Nella cardiochirurgia che cosa è successo?
“L’esperienza del Covid ha dato anche uno scossone importante in alcuni settori che per la necessità di ridurre i tempi delle liste di attesa hanno dovuto velocizzarsi. Nella cardiochirurgia c’è stata una forte accelerata per quanto concerne le tecniche mininvasive che sono state implementate in quasi tutti i centri: si è avuto un netto miglioramento delle procedure utilizzate, ma anche un notevole investimento in termini di capitale umano e formazione. Abbiamo così raggiunto degli standard che ci permettono di affermare che il trend di crescita in questi ultimi cinque anni è estremamente positivo e che le cardiochirurgie italiane sono tutte di alto livello”.
Quali sono stati i progressi raggiunti in questi due anni?
“Oggi molte patologie possono essere trattate con un approccio endovascolare ovvero mediante l’utilizzo di un catetere, senza dover praticare un intervento tradizionale. In particolare, per quanto riguarda le operazioni di sostituzione delle valvole aortiche, è possibile introdurre la nuova protesi valvolare attraverso un’arteria periferica per posizionarla nel cuore esattamente nel punto corretto. Certo, è un approccio che richiede un reparto e una sala operatoria molto attrezzati, con tutto ciò che serve per limitare il rischio chirurgico, ma è questo il futuro della cardiochirurgia: interventi mininvasivi con piccole incisioni attraverso cui si accede alle aree interessate e si interviene sugli organi, rimuovendo o posizionando eventuali protesi”.
Quali sono le nuove metodologie che state utilizzando?
“Il cuore ha la fortuna di essere un organo cavo (mentre per esempio il cervello non lo è): questo permette di intervenite attraverso diversi accessi, ottenendo successo anche in patologie cardiovascolari prima inoperabili. Dove un tempo si metteva un bypass quando si ostruiva un’arteria, adesso in tantissimi casi la tecnologia permette di fare un’angioplastica, posizionando uno stent. Stiamo usando lo stesso principio per trattare le valvole del cuore”.
Qual è la sfida più importante su questo organo?
“La corsa più grande che si sta facendo è individuare nuove procedure mininvasive che sfruttino gli accessi percutanei e periferici e i cateteri. In questi anni di pandemia sono stati fatti passi avanti nella pratica chirurgica: si pensi, ad esempio, alle nuove metodiche di posizionamento delle valvole mitraliche. I tempi sono ora maturi per affermare che abbiamo nuove soluzioni funzionali, a beneficio del paziente”.
Per fare questo, state utilizzando nuove tecnologie?
“Il Covid ha accelerato anche l’introduzione in sala operatoria di tecnologie digitali di ultima generazione. Ciò consente durante gli interventi più complessi, di confrontarsi in tempo reale e interagire a distanza con altri medici, vedendo attraverso i loro occhi grazie alla cosiddetta realtà aumentata e potendo disporre di più informazioni e immagini contemporaneamente, come per esempio la Tac e l’ecografia insieme al campo operatorio. Nella sua drammaticità, questo periodo di pandemia ha dato una tale spinta alle tecnologie operatorie, da migliorare le performance cliniche”.
Ciò vale solo per alcuni centri di eccellenza oppure la situazione generale in Italia è migliorata?
“La quasi totalità delle nostre regioni è dotata di centri di eccellenza, così da abbattere il fenomeno dei cosiddetti “viaggi della speranza” da una parte all’altra del Paese, in cerca di cure migliori. L’esperienza maturata negli ospedali di Gvm, come per esempio l’Anthea Hospital di Bari, uno dei centri di riferimento per la cardiochirurgia mininvasiva in Italia, ci consente oggi di portare tecnologie e know how anche nell’ospedale San Carlo di Nancy di Roma”.
Da anni i robot aiutano i chirurghi in sala operatoria: sono utili anche in cardiochirurgia?
“Nel nostro settore è il cardiochirurgo a fare la differenza, anche nei casi in cui si utilizzano sistemi robotici che hanno invece rivoluzionato la chirurgia in altri ambiti, ad esempio nel campo dell’urologia e della ginecologia”.
C’è stato un cambiamento anche nell’approccio al paziente?
“Oggi sempre più in sala operatoria si ricorre agli heart team: per chi ha più di una patologia, si crea un’équipe apposita di specialisti e le decisioni si prendono collegialmente, stabilendo che cosa è meglio fare e in che tempi”.
Siamo vicini alla medicina personalizzata?
“E’ sempre più una realtà come ormai lo è la medicina di genere: ognuno di noi risponde in modo differente alle terapie e questo non solo in base ai fattori genetici, ma anche a quelli ambientali e agli stili di vita. Si pensi solo alla predisposizione al diabete degli uomini o alla risposta dell’organismo femminile durante la menopausa: in entrambi i casi si modificano gli approcci alla diagnosi e alle cure. Inoltre, l’aspettativa di vita si è allungata considerevolmente e questo comporta la necessità di osservare sotto un altro punto di vista patologie che una volta, quando la vita media era di poco superiore ai 50 anni, non si giudicavano importanti”.
In Italia si fa uno screening di prevenzione per molte patologie oncologiche, ad esempio per il tumore al seno o al colon, mentre non è previsto per le malattie cardiovascolari: perché?
“Infatti dovrebbe esserci. Le malattie cardiovascolari sono la prima causa di morte nei paesi occidentali e uno screening di prevenzione sarebbe anche semplice da effettuare. Basterebbe una Tac della durata di pochi secondi e senza mezzo di contrasto (Tc Calcium score index) quindi con una ridotta esposizione alle radiazioni, per verificare lo stato delle nostre coronarie quantificando il calcio presente in esse.
GVM Care & Research