L’efficacia del BPAC nel prolungare la sopravvivenza a lungo termine e nel ridurre l’incidenza di morte improvvisa è stata chiaramente dimostrata dai trials effettuati nella seconda metà del secolo scorso.
I detrattori dell’approccio chirurgico spesso argomentano che questi studi erano stati condotti negli anni 80, quando molti dei farmaci oggi comunemente utilizzati per il trattamento dell’insufficienza cardiaca di origine ischemica non erano disponibili o, comunque, non erano utilizzati secondo protocolli consolidati e validati dai risultati di sperimentazioni cliniche controllate.
Peraltro, argomenti analoghi potrebbero essere utilizzati dai fautori di una scelta chirurgica. Non si può trascurare il fatto che i recenti progressi della chirurgia coronarica e delle tecniche di protezione miocardica hanno drasticamente ridotto la mortalità operatoria di questi pazienti.
L’utilità del BPAC nei pazienti con scompenso cardiaco conseguente a miocardiopatia post-ischemica è dimostrata, in modo indiretto, anche da studi effettuati più di recente. La mortalità (fino a tre anni dall’intervento) dei soggetti operati si è dimostrata significativamente inferiore (-26%) di quella osservata nei pazienti trattati con la sola terapia medica. Questi risultati non sono sorprendenti poiché proprio l’ evento ischemico è la principale causa di morte in tali pazienti. Un ovvio prerequisito, fondamentale qualora si consideri l’ipotesi chirurgica, è la persistenza di una significativa quota residua del cosiddetto “miocardio vitale” ovvero di muscolo cardiaco che può realmente trarre beneficio (e quindi recuperare efficacia contrattile) dalla procedura di rivascolarizzazione. Sembrerebbe quindi di poter concludere che, qualora percorribile, la terapia chirurgica mediante BPAC, associata o meno a trattamento riparativo del ventricolo sinistro, vada considerata il trattamento di scelta in questa condizione clinica.
GVM Care & Research