Cardiochirurgia Mininvasiva, ce ne parla il Prof. Speziale
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Cardiochirurgia Mininvasiva, ce ne parla il Prof. Speziale

Bastano pochi centimetri per rivoluzionare il concetto delle operazioni al cuore. 
Le cicatrici che percorrono il torace lasciando un segno indelebile dell’esperienza vissuta, le lunghe settimane di ricovero e convalescenza, i rischi importanti che si corrono ogni qual volta si entra in sala operatoria ormai appartengono al passato. L’avvento della chirurgia mininvasiva ha segnato un cambiamento epocale negli interventi cardiochirurgici.

Un termine, quello della mininvasività che, alle volte, può risultare fin troppo tecnico ma che se compreso fino in fondo lascia ben intendere gli enormi progressi che la cardiochirurgia ha compiuto nel giro di pochi anni.
Sottoporsi ad un intervento minimamente invasivo per il paziente significa ridurre tempi di ricovero e di convalescenza, rendere quasi impercettibili le cicatrici, non dover più subire interventi anche lunghissimi durante i quali il cuore viene finanche fermato. Una tecnica chirurgica alla quale, oggi, si ricorre non solo per risolvere la stragrande maggioranza delle patologie cardiache ma anche per operare pazienti che non avrebbero altrimenti potuto sopportare un intervento di tipo tradizionale. Su questa tecnica innovativa si è concentrata, da tempo, l'équipe di Cardiochirurgia dell'Anthea Hospital di Bari, guidata dal dott. Giuseppe Speziale.

Dott. Speziale ci può spiegare meglio, nei fatti, come sono cambiati alcuni interventi con l’avvento della tecnica minimamente invasiva?

"Di esempi se ne possono citare tanti. Si pensi all'impianto di un pacemaker. Grazie alle tecniche di ultimissima generazione è stato possibile impiantare in una paziente ultra sessantenne un pacemaker wireless, iniettandolo nella circolazione sanguigna e fissandolo alla camera cardiaca con delle particolari sonde. Il tutto in trenta minuti, in anestesia locale, senza chirurgia e con il ritorno a casa dopo sole 6 ore di osservazione. Impensabile fino a qualche anno fa, eppure realizzato per la prima volta in Italia - e pochissime volte nel mondo - al Maria Cecilia Hospital di Cotignola dal prof. Carlo Pappone
Un altro caso è quello di un paziente con scompenso cardiaco. Quando il cuore si dilata accade spesso che la valvola mitralica non riesca a chiudersi più bene. Subentra, così, una insufficienza mitralica, molto pericolosa. La soluzione, in questo caso, è l’introduzione di un anello che ripristina il perfetto funzionamento della valvola. Ma se fino a poco tempo fa l’unico modo per inserirlo era aprire il torace, oggi è sufficiente una semplice via d'accesso di pochissimi millimetri. Aprire il torace ad un paziente con un quadro clinico particolarmente difficile non sarebbe possibile. Con la chirurgia mininvasiva si e, se si interviene in tempo, si può ritardare o addirittura evitare il trapianto di cuore".

Dunque anche nelle patologie più complicate è possibile ricorrere a questa tecnica?

"Occorre sempre considerare la situazione nel suo complesso. Ma in linea di massima si. Un altro caso che capita spesso di affrontare è un’insufficienza mitralica anteriore e posteriore. Una delle patologie più complesse da trattare. Normalmente per casi del genere si ricorre alla sternotomia. Oggi, invece, con una incisione piccolissima è possibile fare ciò che generalmente si fa aprendo il torace. La differenza è che il paziente dopo sei giorni può tornare a casa senza nemmeno ricorrere alla riabilitazione. Questo perché il trauma subìto durante l’intervento è minimo".

Quindi la chirurgia mininvasiva semplifica la vita del paziente ma anche quella del chirurgo?

"Assolutamente no. È esattamente il contrario. La vita del paziente dipende da quanto il cardiochirurgo ha dedicato la propria a raggiungere standard eccellenti. Solo centri di eccellenza possono permettersi questo tipo di chirurgia. Non solo perché sono necessarie sale operatorie dotate delle più moderne apparecchiature tecnologiche. Ma anche perché il concetto del “tutti possono far tutto” è molto lontano dalla realtà. Per questo tipo di chirurgia serve un training importante, che segna la vita di un chirurgo in maniera totalizzante. Oltretutto occorre modificare la visione solitaria del chirurgo. Questa è una tecnica possibile solo in squadra. Fare interventi simili senza il supporto di tutte le professionalità che consentono di operare in tutta sicurezza l’ammalato, sarebbe impossibile”.

In Italia si parla spesso di viaggi della speranza. Per curare patologie così complesse è necessario rivolgersi oltre confine?

"No. In passato eravamo noi a dover andare all’estero a formarci. Oggi non è più così. Sono gli altri che vengono in Italia per imparare da noi. I centri di Bari, di Torino o di Cotignola del gruppo GVM Care & Research non hanno nulla da invidiare a centri tedeschi e francesi".

Ricerca e innovazione. Sono queste le parole chiave che nel campo della cardiochirurgia hanno consentito di poter fare passi da gigante. L’intervento al cuore, grazie a queste nuove tecniche, non sarà più così temibile ma diverrà un ostacolo da superare agilmente.
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