Valvulopatie: come trattarle?
Interventi chirurgici

Valvulopatie: come trattarle?

Nel trattamento delle valvulopatie esiste solo una strada: l’intervento chirurgico per l’installazione di protesi. Ciò che i farmaci possono attenuare, infatti,  sono solamente i sintomi connessi alla patologia, come ad esempio disturbi del ritmo cardiaco, insufficienza cardiaca, spossamento. Non risolvono quindi il problema alla radice, bensì solo le complicazioni ad essa annesse. I sintomi d’altronde sono importanti indicatori della necessità dell'intervento chirurgico tempestivo o meno. 

L'intervento chirurgico alle valvole aortiche 

Per la totalità delle valvulopatie aortiche, e per circa metà delle valvulopatie mitraliche, l’intervento chirurgico è possibile ed efficace. Permette, infatti, ai pazienti di ritornare ad una aspettativa di vita quasi pari a chi non soffre della patologia, a condizione che venga effettuato con le giuste tempistiche, in considerazione anche del rischio operatorio e post operatorio.

L’operazione consiste nell’inserimento di protesi che vadano a correggere il malfunzionamento della valvola compromessa. Esse sono di due tipi: biologiche e meccaniche. La scelta di una o  dell’altra soluzione non determina fondamentali differenze  in termini di aspettativa di vita. Diverso è nel post-intervento, per cui le meccaniche hanno necessità di una terapia farmacologica dedicata. Le protesi biologiche ad oggi costituiscono il 70% degli impianti. 

Le protesi meccaniche

Le protesi meccaniche sono in uso dal 1960, e la loro efficacia è comprovata. Nelle prime versioni si utilizzava la forma a sfera, a cui sono poi seguite quelle a disco ed infine ad aletta. Tutt’oggi sono ancora scelte per molti interventi, complice il materiale di cui sono composte che le rende estremamente durature.
Una caratteristica legata all’utilizzo di queste protesi è però il trattamento anticoagulante che il paziente deve continuare per tutta la vita. Tale terapia va monitorata e ottimizzata con precisione, poichè la sua interruzione può causare complicazioni estremamente gravi,  fino alla trombosi della protesi che, impedendone il funzionamento, porta al decesso immediato e improvviso del paziente. 

Le protesi biologiche

Dette anche bioprotesi, sono di origine animale, prevalentemente suina, e costituite da tessuti biologici opportunamente trattati in modo da non essere antigenici e generare rigetti. Le protesi biologiche, a differenza delle meccaniche, non richiedono alcun trattamento anticoagulante connesso salvo specifici casi come, ad esempio, in presenza di problemi di ritmo auricolare. L’inconveniente maggiore legate all’impianto di questa tipologia di valvole consiste nel deterioramento: la durata utile è perciò più breve, con un processo di degenerazione che comincia dopo circa 10 anni. Tale deterioramento è però legato anche all’età del paziente nei pazienti più giovani, infatti, avviene con maggiore rapidità che nei pazienti anziani. Per questo, le bioprotesi vengono predilette per i pazienti over 70.

L’intervento nelle specifiche valvulopatie


Pazienti con restringimento aortico

Per quanto concerne il restringimento aortico, che comporta una diminuzione dello spazio che permette al sangue di fluire dal ventricolo sinistro all’aorta, l’intervento chirurgico è stata sempre l’unica soluzione possibile: una scelta favorita anche da un basso rischio operativo, pari al 4-5%, maggiore solamente in pazienti anziani. I pazienti operati presentano una aspettativa di vita di gran lunga superiore a quella anamnestica, arrivando addirittura ad essere comparabili con la popolazione non affetta dalle valvulopatie, soprattutto per quanto concerne i pazienti più anziani. L’intervento in questo caso si rivela quindi risolutivo, mentre per i pazienti più giovani vanno considerati i rischi legati alle complicanze a lungo termine delle protesi.

L'utilizzo della tecnica TAVI 

Tuttavia, ad oggi è diventato comune anche utilizzare un approccio strumentale, tramite la tecnica TAVI (dall’inglese : “Transcatheter Aortic Valve Implantation”). Essa consiste nella sostituzione valvolare aortica percutanea, impiantando una protesi senza tuttavia rimuovere la valvola. Questo avviene, nella maggioranza dei casi, per via vascolare transfemorale. La tecnica viene scelta soprattutto per i pazienti che corrono un alto rischio operatorio e per i quali viene sconsigliato l’intervento chirurgico. Tramite la TAVI , la percentuale di mortalità per i pazienti caratterizzati da rischio operatorio elevato è compresa in un’ampia fascia che va dal  5 al 20%, mentre con i pazienti a rischio moderato, lieve o medio, l’intervento chirurgico classico risulta il trattamento preferibile. 

Insufficienza aortica 

Non ci sono alcune alternative all’intervento chirurgico, invece, per i pazienti affetti da insufficienza aortica. In questo caso le percentuali di sopravvivenza si riferiscono ad una classificazione individuata dalla New York Heart Association. L’associazione, infatti, ha individuato delle classi funzionali, dove i pazienti possono rientrare in base alla misurazione dello scompenso cardiaco in relazione con una serie di attività che il paziente riesce o meno a svolgere. Per quanto concerne quindi l’insufficienza aortica, viene evidenziato che i pazienti operati in classe I o II (meno gravi) presentino una sopravvivenza estremamente alta, pari all’80%, mentre per i pazienti in classe III e IV questa si abbassa al 50%. 

Insufficienza mitralica

Diverso invece il caso dell’insufficienza mitralica che permette, oltre all’intervento chirurgico, anche quello strumentale. Nel primo caso, oltre alla sostituzione della valvola, è possibile anche ripararla (plastica valvolvare): una procedura che viene adottata per tutti i pazienti sintomatici. Per quelli asintomatici, invece, la necessità di un intervento chirurgico è conseguenza di una valutazione dell’eventuale impatto sul ventricolo sinistro.

Restringimento mitralico

Nel caso di restringimento mitralico, prima di optare per la sostituzione valvolvare, generalmente si tenta la via percutanea, tramite una operazione chirurgica che consiste nell’introduzione di un catetere all’interno della valvola compromessa per permetterne la dilatazione; con questa modalità si riscontrano percentuali di sopravvivenza ottimi, pari a circa l’85%.  In generale, nel restingimento mitralico, la valvola viene dilatata per via percutanea. L’intervento consiste nell’introduzione di un catetere nella valvola, al fine di dilatare l’orifizio mitralico stenotizzato. Questa è la tecnica che normalmente si sceglie in via prioritaria; se non funziona, si procede alla sostituzione valvolare. I risultati a 20 anni indicano che la sopravvivenza è eccellente, circa l’85%. La sostituzione valvolare continua ad essere la soluzione più adatta in caso di pazienti fortemente sintomatici. 
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Fonte: Scor - The art and science of risk
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