Bloodless: intervenire sul cuore risparmiando sangue
Interventi chirurgici

Bloodless: intervenire sul cuore risparmiando sangue

Maria Pia Hospital di Torino dispone di una delle casistiche più ampie del Paese nell’utilizzo della tecnica bloodless, una metodica chirurgica nata negli Stati Uniti ancora non molto diffusa in Italia.

Nell’ospedale torinese ogni anno si eseguono circa 20 interventi seguendo il protocollo che nella sua fase d’esordio venne soprattutto riservato al trattamento dei pazienti Testimoni di Geova i quali, per via delle proprio credo, non possono subire trasfusioni.

Cosa vuol dire, nel concreto, chirurgia a risparmio di sangue?

Innanzitutto - spiega la dottoressa Chiara Comoglio, Responsabile dell’Unità Operativa Cardio-Toraco-Vascolare dell’ospedale piemontese – è necessario attuare alcune strategie fondamentali per stimolare l’emopoiesi (ovvero la produzione di globuli rossi), minimizzare le perdite di sangue, ottimizzare la coagulazione e prevenire e ottimizzare la tolleranza all’anemia. In prima istanza e prima dell’ingresso in sala operatoria, viene attivato un percorso, con il coinvolgimento di ogni figura, ogni professionalità legata all’intervento, affinché il concetto del risparmio ematico inneschi un circolo virtuoso e trovi piena attuazione già precedentemente all’approccio chirurgico.

Un lavoro di squadra totalmente indirizzato alla preservazione di una ‘risorsa biologica’ tanto importante. L’impegno maggiore coincide poi con il massimo controllo della fase chirurgica ai fini della non dispersione sul campo operatorio. Ci si avvale anche di un apposito macchinario che ha la funzione di recuperare il sangue - tecnologia di grande supporto durante l’intervento - e, per limitarci solo ad un altro focus operativo, del lavaggio accurato delle garze a salvaguardia di ulteriori quantità (possono contenerne fino a 200 ml ognuna).

È una tecnica praticabile in tutti i pazienti che si sottopongono a interventi di cardiochirurgia?
                          

No, quest’aspetto dev’essere riconosciuto. Si può proporre in tutti gli interventi di cardiochirurgia ma non è un automatismo. Vanno valutati diversi fattori prima di procedere. Penso, ad esempio, ai parametri di coagulazione del soggetto; alla sua condizione psicofisica generale; a un’eventuale maggiore facilità di sanguinamento dei tessuti. Cerchiamo di orientarci il più possibile alla tecnica bloodless, di adottare sempre il medesimo protocollo di risparmio ematico; tuttavia in alcuni casi risulta necessario e indifferibile, per la vita del paziente, il ricorso alla trasfusione.
 

Quanto tempo occorre per una corretta valutazione pre-operatoria del paziente da sottoporre a chirurgia bloodless? Il ruolo dell’Heart Team è dunque imprescindibile?

Il ruolo dell’Heart Team è fondamentale. Detto ciò è comunque necessaria una preparazione; mi riferisco agli interventi in elezione - programmati e non conseguenti all’emergenza clinica - nei quali si fa uso dell’eritropoietina affinché il paziente presenti, all’esito dell’ultimo controllo di laboratorio, un livello ‘non stressato’ di emoglobina: situazione ben differente da quando ci troviamo invece in condizioni d’estrema urgenza chirurgica.

La tecnica bloodless permette di abbreviare i tempi operatori?
 
I tempi della sala operatoria variano in base alla problematica da affrontare ma sono leggermente più lunghi rispetto all’intervento ‘standard’ in ragione dell’accuratezza riservata all’emostasi (cioè all’arresto della fuoriuscita di sangue).
 
Quali gli altri vantaggi?
 
Evitare sia l’eccessivo impoverimento del patrimonio di sangue sia il ricorso alle trasfusioni, scongiura il sovraccarico di tutti gli organi (cervello, polmoni, reni) e riduce le possibilità d’infezioni”.
 
È una tecnica destinata in futuro ad annullare del tutto il ricorso alle emotrasfusioni?
 
No, grazie ad una maggiore attenzione verso il paziente potrà però ridurne nettamente il numero.
 




 

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